50 anni fa le truppe del Patto di Varsavia, su ordine del soviet supremo di Mosca, invase la Cecoslovacchia, anch’esso Paese Comecon, per reprimere le istanze di democrazia del governo di quel Paese. Fu un’invasione militare con centinaia di migliaia di soldati, migliaia di carri armati, uno spiegamento di forze che non si vedeva dal tempi della Seconda Guerra Mondiale. Spiegamento del tutto sproporzionato alla minaccia, anche considerando che le 12 divisioni dell’esercito regolare cecoslovacco ubbidirono a Mosca, schierandosi sui confini della Germania Ovest per impedire che da quella parte giungessero aiuti ai “rivoltosi”. Era la cosiddetta Primavera di Praga, come mediaticamente passò alla storia. In Unione Sovietica comandavano leader che si chiamavano Breznev, Podgorny, Kossighin, e la destalinizzazione si stava lentamente compiendo un po’ in tutti i Paesi del Patto di Varsavia. Nel 1956 c’era la stata la rivolta d’Ungheria, nel 1953 quella della Germania dell’Est, adesso era la Cecoslovacchia ad alzare la testa. E c’era la Guerra Fredda, la Baia dei Porci era un ricordo recente, e Mosca non poteva consentire deroghe al cammino spietato del socialismo internazionale. Per questo le velleità indipendentiste cecoslovacche andavano represse subito. E lo furono, quella nazione rimase occupata militarmente fino al 1990. Tutti i Paesi satelliti dell’Urss parteciparano all’invasione, anche se la parte del leone fu interpretata dall’Unione Sovietica. Una sola nazione rifiutò di partecipare all’invasione: la Romania di Ceauscescu, il dittatore tanto vituperato, tanto infangato, ma che in quell’occasione disse forte e chiaro i non convidere l’azione di Mosca. Altri Paesi comunisti, i cosiddetti non allineati, come Jugoslavia e Albania, furono critici nei confronti dell’invasione, peraltro inascoltati. Per quanto riguarda il mondo occidentale, come già successe per l’Ungheria, non sperava altro che la faccenda finisse in fretta, anche se le condanne internazionali furono più decise rispetto a quelle dell’Ungheria. Il governo italiano fu però quello che più si distinse per il suo silenzio: la Dc, che aveva con Leone il presidente del Consiglio, non voleva dispiacere troppo al Pci, e pertanto l’imperialismo comunista non fu esplicitamente condannato dalle istituzioni. Le organizzazioni internazionali come al solito tacquero, Onu e Cee tra tutti, come peraltro hanno sempre fatto nella loro storia fino ai giorni d’oggi.
In Italia, per chi se lo ricorda, l’unico partito a gridare forte fu il Movimento Sociale Italiano, i cui giovani, ma non solo, scesero per giorni in piazza chiedendo libertà per la Cecoslovacchia. Vi furono scontri, disordini e anche qualche arresto. Va considerato anche che la sinistra era in piena contestazione e crescita dopo la primavera del 1968, cui sarebbe seguito l’autunno caldo, che avrebbe definitivamente rovinato, e per decenni, questo Paese. La mattina del 21 agosto tutte le sezioni del Msi e della Giovane Italia, che allora era l’organizzazione giovanile del partito, si mobilitarono per affissione di manifesti e distribuzione di volantini sulla Primavera di Praga. Il segretario del partito era ancora Arturo Michelini e capogruppo alla Camera Giorgio Almirante. Entrambi rilasciarono dure dichiarazioni anticomuniste, mettendo in evidenza l’intolleranza e la brutalità del regime comunista, sperando di mettere in guardia gli italiani sul pericolo rappresentato dal Pci, che notoriamente era finanziato dal Pcus di Mosca. I giovani missini, come si è detto, scesero in piazza a migliaia, contenti che una volta tanto quanto loro dicevano da tempo si stava rivelando vero, ossia che il comunismo rappresentava la tirannia e la privazione della libertà. Successe però un contrattempo: il partito, il Msi, non era preparato a questa emergenza, e pertanto non c’erano manifesti pronti; ci volle qualche giorno prima di di allestire una campagna adeguata, e quindi i giovani oltre a volantini improvvisati, non avevano nulla. Improvvisamente comparvero dei manifesti di una sconosciuta associazione di amicizia italo-russa, che denunciavano l’invasione sovietica: sul manifesto, nero, vi era raffigurato un carrista sovietico che usciva dalla torretta di un T-54 sovietico nelle strade di Praga. Manifesti indubbiamente molto efficaci. Questi furono i manifesti che i ragazzi del Msi e della Giovane Italia attaccarono in quei giorni d’agosto in tutta Roma. Non si è mai sapito da dove fossero usciti fuori, ma oggi si può verosimilmente immaginare che ci fosse lo zampino di Giulio Caradonna, deputato romano del Msi, avvocato ma sopratutto fervente anticomunista. Anche perché a noi ragazzi della Giovane Italia i rotoli dei manifesti li dette l’indimenticato Natale Gianvenuti, segretario di sezione della Trieste Salario, che allora era in via Tolmino, e che con Caradonna era in ottimi rapporti.
Purtroppo neanche la brutale repressione in Cecoslovacchia da parte del comunismo sovietico riuscì a frenare l’ascesa della sinistra in Europa: ci vorranno le repressioni operaie in Polonia e il papato Wojtyla per far uscire il comunismo dalla storia. Ma ci piace pensare che anche la infaticabile opera di propaganda e di militanza del Msi abbia contribuito a far cadere il Muro di Berlino. Per quanto riguarda l’invasione della Cecoslovacchia, ancora oggi non si sa esattamente quante vittime abbia provocato: le cifre parlano di poche centinaia di morti, neanche trecento, sia tra gli invasori sovietici sia tra la popolazione civile praghese. La faccenda passò in secondo piano sino all’anno successivo, quando ci furono i ragazzi cecoslovacchi che si immolarono dandosi fuoco, il più famoso dei quali è senza dubbio Jan Palach. Sull’esempio dei bonzi buddhisti, Palach si corparse di benzina e si dette fuoco in piazza San Venceslao per chiedere la libertà per il suo popolo. In quella circostanza i giornali di sinistra italiani si distinsero per denigrare e infangare la figura dello studente praghese in tutti i modi, secondo una tecnica ben collaudata della macchina del fango, in uso ancora oggi contro chi non sia di sinistra e che alla sinistra dia fastidio. Tanto è vero che le autorità comuniste cecoslovacche fecero seppellire Jan Palach in una tomba senza nome del cimitero di Praga. Solo dopo il 1990 il giovane martire ha potuto essere riabilitato. Oggi nella piazza del suo sacrificio c’è un monumento che lo ricorda sempre pieno di fiori. Per amore di verità, e di storia, va ricordato che non fu Jan Palach il primo anticomunista a immolarsi col fuoco per la libertà, ma fu un polacco, Ryszard Siwiec, che il 12 settembre 1968, pochi giorni dopo l’invasione, si dette fuoco nello stadio di Varsavia, davanti a centomila persone. Incredibilmente, la notizia fu messa a tacere dai sovietici, tanto che in Occidente ancora oggi non se ne sa nulla. Ci sono voluti anni, decenni, prima che gli orrori del comunismo siano stati raccontati, dai gulag sovietici ai crimini degli khmer rossi alle stragi partigiane in Italia. Resta la consolazione che chi era giovane allora e per anni ha denunciato questi reati, oggi può assistere all’emergere – lento – della verità.