L’analisi dei gruppi di destra italiana, per quanto riguarda il segmento giovanile,
rappresenta un campo di studio non ancora del tutto esplorato, dal momento che il ricco lavoro di ricerca scientifica svolto nel 1970, ha principalmente analizzato il ruolo dei gruppi di estrema Destra o del Movimento Sociale Italiano.
Questo progetto di ricerca è invece incentrato sulle motivazioni e sulle attività dei gruppi giovanili di Destra politica degli anni Settanta in Italia, che non implicava l’uso della violenza.
Lo scopo di questo lavoro è presentare le caratteristiche principali del progetto di ricerca, per delineare l’argomento applicando una metodologia coerente. Particolare attenzione è riservata all’analisi delle fonti e alle leve antropologiche coinvolte nell’analisi di questo
fenomeno; inoltre, viene esaminato l’arco cronologico della ricerca, nonché la
questione del ricorso alla violenza dei gruppi giovanili.
«A scuola la scelta della Destra era l’unica contro l’omologazione, per un giovane che voleva fare politica, come me, c’erano solo la Sinistra oppure l’emarginazione; se eri emarginato venivi etichettato subito come fascista»
Le parole di Marco Zacchera, responsabile del Fronte della Gioventù verbanese, offrono uno spunto rilevante per scrivere del presente progetto di ricerca, che intende studiare una galassia umana eterogena e complessa, eppure unita entro il perimetro politico della destra. Il quesito alla base del lavoro si sostanzia nell’analisi delle ragioni che portarono i giovani a entrare nella “riserva indiana” della Destra e, contestualmente, nell’indagine sulle forme dell’attività di questi gruppi.
In altre parole, che cosa spingeva ragazze e ragazzi a fare politica da Destra?
Sono elementi profondamente interrelati, le motivazioni che causarono la scelta e le declinazioni
dell’azione politica, tanto da tenere insieme anime molto differenti e approcci ideologici decisamente distanti.
. Roberto Chiarini ha scritto che, negli anni Settanta, la Destra affascinava i giovani sia per la
sua forte carica antisistemica e minoritaria, sia per lo spiccato carattere militante proposto.
. La chiave di lettura identitaria è rilevante in questa ricerca, così come le dinamiche legate alla memoria poiché potrebbero contribuire a gettare luce su un ambito storiografico sondato unicamente attraverso contributi settoriali.
L’identità e la memoria sono concetti primari per la comprensione di queste formazioni: il
riconoscimento e l’accettazione in un gruppo, unito al richiamo nostalgico a momenti del passato, generato in prima battuta dalla non accettazione del regime politico in cui esse vivevano, sono campi di studio da esplorare in maniera approfondita, soprattutto per quella parte politica saldamente legata ad un misto di ideologia e sentimenti.
. È necessario affrontare la questione dell’identità, dalla costruzione al consolidamento, di questa comunità di “esuli in patria” allo scopo di cogliere meglio le componenti superficiali e profonde, gli ideali, le aspirazioni e le azioni dei ragazzi che “stavano a Destra”.
L’obiettivo della ricerca sono le organizzazioni non rivolte programmaticamente a scopi eversivi,
o perlomeno quelle che non avessero scelto la violenza come via preminente del loro agire nel
confronto con gli avversari politici. L’arco temporale di riferimento, ovvero il decennio, è denso di
episodi terroristici, omicidi, attentati e resta dunque inderogabile affrontare il rapporto problematico di questi gruppi con la violenza.
In quegli anni il processo di politicizzazione raggiunse il culmine e le generazioni più giovani si
definirono in tale contesto, nella temperie della radicalizzazione dello scontro politico, in risposta alle scelte dei loro coetanei, per mezzo di ideologie e atteggiamenti peculiari. Il continente europeo visse, nella seconda metà del XX secolo un periodo di politicizzazione di massa dei giovani, che mai come allora parteciparono alla vita politica.
. Necessita un chiarimento anche il peso del contesto internazionale, molto presente nell’osmotico ambiente giovanile a partire dal Sessantotto avveniva fuori dai confini concorreva a delineare gli argomenti dibattuti in sezione e nella piazza, determinava scelte tattiche.
. È da sottolineare che il Movimento Sociale Italiano divenne il baluardo istituzionale delle
formazioni di Destra, dai nostalgici neofascisti fino ai tradizionalisti cattolici, passando per i
sostenitori della monarchia, non solamente per l’accordo con i monarchici, i quali di fatto entrarono nel MSI nel 1972, ma anche per il ruolo egemone svolto in quell’area politica a partire dalla prima metà degli anni Sessanta. Inoltre, il politologo Tarchi ha argomentato che «l’ambito sociale a cui il MSI ha rivolto gli sforzi di penetrazione più continui e diretti è [stato] quello delle giovani generazioni»
.Nelle pagine successive, verrà delineato lo stato della ricerca sulla materia e si cercherà di
precisare la collocazione della tesi dottorale in questo contesto; in seguito, saranno esaminate le fonti primarie e secondarie a disposizione degli storici, al netto delle lacune nella documentazione ufficiale.
La terza parte si occuperà della definizione dell’oggetto della ricerca, ovvero, come accennato in
precedenza, le formazioni di Destra non eversive o esclusivamente votate all’uso della violenza,
spesso ampiamente confuso con le formazioni eversive e terroristiche, dei suoi limiti spaziali e
temporali.
- Lo stato dell’arte
La storiografia si è spesso confrontata con la destra italiana, sebbene le analisi sistematiche sulla
storia del MSI siano esigue e quelle maggiormente citate pertengano a due studiosi di formazione politologica, ossia Piero Ignazi e Marco Tarchi10. Sono da considerarsi utili le opere di Nicola Rao, ricche di interviste a personaggi poco raggiungibili, e Adalberto Baldoni, uno degli intellettuali moderati di destra che ha contribuito a scriverne la storia11. In generale, i numerosi contributi degli studiosi guardano con angolazioni tematiche e cronologiche differenti al fenomeno, a cominciare
Si confronti, ad esempio dagli imprescindibili lavori di Giuseppe Parlato, notevoli per le riflessioni proposte, per la varietà dei temi trattati e per le fonti primarie utilizzate.
Sarebbe impossibile, in poche righe, ricordare i molti articoli che toccano in modo tangenziale
l’oggetto della ricerca: dagli approfondimenti sull’identità della comunità neofascista, passando
attraverso gli studi sulla musica ribelle, fino ai meritori lavori di Loredana Guerrieri sulle influenze del Sessantotto sui giovani universitari neofascisti. Gli anni Settanta hanno stimolato l’attenzione degli storici accademici non da oggi e gli approfondimenti di storia politica, sociale e culturale aiutano a tratteggiare i contorni di anni difficili da afferrare, spesso per il coinvolgimento emozionale degli autori, così determinanti per le scelte dei singoli e dei gruppi politici. Eppure, manca un’analisi organica delle formazioni giovanili che si intende mettere al centro del presente progetto.
L’area della destra nel decennio della strategia della tensione e degli anni di piombo è stata
trattata in saggi, articoli e libri, i quali, principalmente, hanno esaminato nel dettaglio i legami tra l’eversione nera e il partito, oppure il tema della violenza a scopo politico e terroristico. - Occorre citare tre opere spartiacque di recente pubblicazione: La sottile linea nera di Mimmo Franzinelli, la quale coglie nel segno ricostruendo il brodo di coltura dei giovani neofascisti italiani tra gli anni Sessanta e Settanta; L’eco del boato di Mirco Dondi, in cui viene minuziosamente studiato il decennio che va dal 1975 al 1974, fino a raggiungere una nuova e convincente periodizzazione della strategia della tensione; Storia di Ordine Nuovo di Aldo Giannuli ed Elia Rosati, che ricostruisce le vicende di una delle formazioni più oscure e segnanti del periodo, inserita in una rete di legami interni e internazionali con servizi segreti e vertici militari.
- L’ultima storia del partito missino, scritta da Davide Conti, contiene una corposa parte su questo sanguinoso periodo e sui torbidi legami del MSI.
Rimane evidente l’assenza di un lavoro storiografico che affronti quantomeno le cause della
cosiddetta “zona grigia” e che tratti organicamente i militanti di destra delle formazioni meno
estremistiche.
Nel 1996 Pasquale Serra pubblicò un’analisi rilevante della storiografia sulla destra, nella quale
individuava due orientamenti prevalenti presso gli storici. Il primo era identificare la storia missina con quella del vertice del partito, assegnando alla comunità di nostalgici un ruolo passivo. Nel medesimo frangente, si procedeva secondo una sovrapposizione dei concetti di destra e fascismo. In tal modo, per Serra, il richiamo simbolico al Ventennio, in capo alla definizione dell’identità della comunità umana neofascista, sarebbe stato sostituito da una errata interpretazione, volta a leggerlo come richiamo sostanziale all’impianto ideologico del Ventennio. Il secondo filone si caratterizzava per la definizione variabile del rapporto della Destra con il fascismo: il “processo storico” influenzava costantemente questa relazione e precisava i confini della stessa categoria della Destra.
Ora, per quanto attiene al progetto di ricerca alcuni rilievi di Serra sono condivisibili: in gran
parte della letteratura vi è stata una tendenza, per dirla con Parlato, a raffigurare il partito «a tutti i costi antisistemico e antiparlamentare», connesso alle frange più radicali. In realtà, esso seguì la linea della fermezza per guadagnare il maggior consenso possibile: tra le mosse della Segreteria ci fu la gestione fortemente controllata del settore giovanile, come dimostrano una regolamentazione pervasiva e a tratti sofferta dai militanti, talvolta pubblicamente in contrasto con il vertice, e l’apertura ai non iscritti che avessero voluto contribuire all’edificazione della Destra Nazionale.
Pertanto, il presente lavoro si propone di introdurre una distinzione tra formazioni votate a fini
eversivi oppure all’uso indiscriminato della violenza quale metodo principale di azione politica -in
esplicito rifiuto del sistema democratico- e gruppi che facevano politica a destra. Non è
semplicemente una separazione dettata dalle norme statutarie del Fronte della Gioventù o del Fronte Monarchico Giovanile, è altresì frutto delle risultanze emerse dal vaglio della documentazione disponibile, proveniente in particolar modo dall’Archivio Centrale dello Stato.
Resta da problematizzare il rapporto con il fascismo, giacché allo stacco generazionale degli anni
Settanta, avvenuto tramite l’ingresso in politica dei giovani anagraficamente distanti dal Ventennio, si sommò quella rottura formale e sostanziale che condusse agli sperimentali Campi Hobbit, ovvero all’ingresso di una nuova Destra nello scenario italiano. Dino Cofrancesco pubblicò nel 1983 un saggio in cui offriva una definizione di destra radicale complessa e a tutt’oggi poco usata: la Destra avverserebbe il regime politico democratico, inteso come struttura di potere e non tanto come processo di potere (il quale prende corpo entro la struttura), ma non avrebbe come comune denominatore di tale rifiuto la violenza politica per osteggiarlo; le associazioni dell’area della Destra accetterebbero il funzionamento della democrazia, il processo di potere, pur contestandone la cornice normativa in cui si sviluppa.
Egli distingueva «entro la destra radicale, almeno sei gruppi significativi», definiti in base al rapporto con il passato, non solamente fascista, ma anche risorgimentale, e riportava all’attenzione il tema della comunità in cui riconoscersi e sentirsi al sicuro. Di nuovo, i temi della memoria e dell’identità si confermano dei crocevia da attraversare per comprendere questa galassia.
- Le fonti per una storia della Destra: problemi e metodologia
Il politologo Ignazi nel suo Il polo escluso segnala l’assenza di documentazione ufficiale prodotta
dal MSI; per lo storico, questa carenza risultava decisamente invalidante dal momento che il partito non si dotò nemmeno di una fondazione culturale con il compito di raccoglierne e gestirne la memoria. Tuttavia, tale lacuna suggerisce alcune riflessioni storiografiche sulla destra, valide anche per gli anni Settanta.
Sul punto, lo storico Parlato ritiene che vi siano alcune cause: in primo luogo, la speranza di un
ritorno al potere e la «tradizionale diffidenza verso la forma partitica», mostrata fin dall’origine,
spinsero i missini a non dotarsi di un apparato deputato a registrare il passato, poiché il ritorno al potere doveva essere imminente; in secondo luogo, la relazione conflittuale con le correnti e culturali e intellettuali, frequentemente avversate dal vertice negli anni Settanta, determinò lo scarso dibattito interno e la “mancata storicizzazione” del fascismo, che rimase da un lato un riferimento costante, dall’altro un tabù. Secondo Angelo Ventrone, «non era […] possibile rielaborare il lutto perché la perdita non era riconosciuta».
Un’altra spiegazione potrebbe risiedere nella compattezza verso l’esterno di questa galassia,
minacciata non soltanto dall’autorità giudiziaria (Almirante venne messo sotto processo per
ricostituzione del partito fascista nel 1972 e negli anni Settanta le forze dell’ordine controllarono da vicino le attività di piazza e di sezione), ma anche dagli scontri con gli avversari e dalla scarsa area di agibilità politica in Parlamento e fuori. L’unità non permise mai di recidere con forza i legami umani, quelli nati in sezione e nelle manifestazioni, tra coloro i quali scelsero la strada dell’eversione o della clandestinità, o meglio: della violenza, e gli altri. In breve, la “zona grigia” implicò un’elevata dose di riservatezza non senza conseguenze sul lavoro degli storici; il punto merita uno spazio d’indagine. Alfredo Mantica, della corrente romualdiana e fiero avversario di Almirante, ha dichiarato:
«Io non amavo né Almirante, né i sanbabilini, che con la politica c’entravano ben poco: in sezione e alle riunioni si litigava sempre. Ma ero pronto a finire in carcere per difenderli, nessuno fuori dal partito poteva toccarli, il nostro segretario, i nostri militanti».
Questa diffidenza genetica all’apertura verso l’esterno crollò verso la seconda metà degli anni
Settanta, grazie ai tentativi di dialogo portati avanti con alcuni esponenti del mondo cattolico e della Sinistra e, non va dimenticato, a causa dell’ibridazione culturale per mezzo della musica, della letteratura e della discussione sui valori.
La confusione nei ricordi dei giovani militanti degli anni Settanta sulla carenza di un archivio,
testimoniata dall’ampia gamma di risposte discordanti fornite a chi scrive, contribuisce alla
definizione di un’identità che non affrontò compiutamente, almeno fino alla seconda metà del
decennio, il rapporto con la memoria. Non si tratta del legame con il regime fascista e con la
Repubblica Sociale Italiana soltanto, perché un certo ricambio al vertice vi fu, perdipiù tra i giovani: bensì di una comunità che si percepiva sotto attacco da parte delle forze antifasciste. La stessa vitalità culturale, ben testimoniata dalle riviste, si fermò sempre nell’alveo dei militanti e dei simpatizzanti destrorsi, senza mai uscire dal “ghetto”. In occasione della mostra per i settant’anni dalla nascita del MSI, Nostalgia dell’avvenire. Il Movimento Sociale Italiano a 70 anni dalla nascita, è emersa la «vitalità festosa»24 che contraddistinse questa area politica, ma che fino agli anni Ottanta rimase a uso e consumo dei soli militanti e tesserati.
Negli ultimi anni è stato compiuto un grande lavoro archivistico dalla Fondazione Ugo Spirito e
Renzo De Felice, la quale sistematizza fondi privati di personalità di spicco del partito, a titolo di
esempio: Mario Cassiano e Adalberto Baldoni. Sono materiali interessanti, essenziali per ogni studio sulla Destra benché rimangano necessariamente spuri; per ricostruire l’attività giovanile occorre soffermarsi sui quattro fondi in particolare: Movimento Sociale Italiano, Evenio Arani, Franco Servello e Primo Siena.
In aggiunta, l’Archivio Centrale dello Stato contiene documenti, provenienti specialmente dal
Ministero dell’Interno e dalla Presidenza del Consiglio, utili a tratteggiare le attività svolte sul
territorio nazionale: il controllo delle autorità fu stretto, nello specifico la prima metà degli anni
Settanta è quasi quotidianamente coperta da rapporti di prefetture e questure. Inoltre, la direttiva Renzi ha reso da poco disponibili una serie di dati sugli incidenti violenti nelle città italiane che servono a distinguere fenomeni complessi troppe volte ricondotti semplicemente all’eversione.
La disponibilità degli ex membri a rilasciare testimonianze, e a lasciare consultare carte personali, ancorché non conservate con criteri archivistici, indica un rapporto tranquillo con il proprio passato anche in relazione ai temi caldi del passato e, insieme, un desiderio di raccontare le esperienze vissute.
Allo storico spetta il compito di utilizzare queste fonti primarie con cautela: il valore intrinseco della voce dei protagonisti, piuttosto restii a parlare fino a pochi anni fa, è innegabile; sono altrettanto incontrovertibili i meccanismi di autorappresentazione, ad esempio come vittime, e di
autoassoluzione che sopraggiungono nella trattazione di un periodo ancora oggi lacerante sia per i protagonisti che per l’opinione pubblica.
In proposito, i romanzi d’area e le storie militanti affrescano un ambiente faticosamente ricostruibile dall’interno25. Il clima teso, l’inevitabile scontro, le pulsioni giovanili sono tutti dati eviscerati in questa tipologia di pubblicistica che permette di supplire, in qualche modo, alla cronica mancanza di documentazione interna. In questi testi, la passione politica emerge in ogni pagina e si possono facilmente evidenziare le “strategie di sopravvivenza simbolica che producono una cultura dei vinti e, in maniera più o meno efficace, identità collettive centrate su questo trauma fondante”. È un nodo da trattare con cautela quest’ultimo: non a caso, nella narrazione degli anni Settanta, visti da ogni parte politica, risulta generalmente difficoltoso ricostruire gli eventi giacché tutti si sentivano vittime degli avversari. I sentimenti esperiti fanno parte della ricostruzione del periodo, in virtù del loro ruolo ricoperto nel mobilitare le giovani generazioni.
In ogni caso, la lacuna documentale non deve diventare un ostacolo insormontabile a una
ricostruzione storiografica. Chi scrive è convinto in primo luogo di dover considerare una pluralità di fonti, dalle evidenze documentarie alle testimonianze orali fino alle canzoni dei gruppi d’area e alle riviste, senza dimenticare le notizie provenienti da sinistra. In secondo luogo, è innegabile la necessità di intersecare diversi approcci metodologici al fine di pervenire a una trattazione storiografica più completa. Già le indicazioni dell’antropologia sulle testimonianze orali hanno suggerito alcuni spunti di riflessione per gli studiosi; in aggiunta, i politologi hanno trattato l’oggetto della ricerca in modo profondo ed originale. Giorgio Galli ha scritto in merito alla destra in Italia un volume autorevole, nel quale sono avanzate tesi originali e presentate categorizzazioni nuove; ad esempio, vi si suggerisce che i servizi segreti e i militari pescarono manovalanza a destra, servendosi di suggestioni culturali e politiche come la paura di una salita al potere del Partito Comunista Italiano o, ancora, promettendo un ruolo di primo piano nel nuovo Stato. Fabio Torriero, militante del Fronte Monarchico Giovanile e alleato dei missini, ha rivelato:
«Noi eravamo affascinati dalla possibilità di partecipare a qualcosa di grande, segreto, ad un Colpo di Stato, alla difesa armata di Roma contro i comunisti, a favorire il ritorno del Re. Subimmo la fascinazione di cose di cui non capivamo la portata, guidati da cattivi maestri che venivano in sezione a parlare; scoprimmo dopo che erano dei servizi. Nessuno di noi finì però a fare attentati, a sparare; fu un fuoco di paglia e, per fortuna, lo capimmo da soli».
La testimonianza sembra convalidare la tesi di Galli, al netto anche delle evidenze emerse nei
processi degli anni scorsi, e contribuire a chiarire una parte dell’oscura relazione con la violenza ed i violenti, letta dalla storiografia alla stregua della connivenza, quando non dell’appoggio. Tale
assonanza andrebbe rivista non certamente per alleviare responsabilità oggettive, ma per spiegare le motivazioni di taluni atteggiamenti.
Un altro caso di incontro tra materie ha portato un risultato degno di nota è espresso in un saggio di Agostino Bistarelli, il quale, riprendendo un’elaborazione dello psicanalista Cesare Musatti, dibatteva dell’associazionismo nel secondo dopoguerra29. All’inizio del contributo si discute proprio la categoria del reducismo, definita come
«un collante composto di sentimento e interesse: trasposizione in tempo di pace di quelle tendenze affettive positive che cementano fra loro i combattenti dello stesso esercito, provocano in misura fortissima fenomeni di identificazione affettiva, determinano manifestazioni di solidarietà e colleganza del tutto ignote nella vita civile»
E aggiungeva: «quando in Italia per alcuni la guerra finisce, per altri continua, oppure ricomincia
di nuovo». Si capisce la rilevanza di ciò per il presente progetto di ricerca, in cui i protagonisti si
trovarono uniti dalla parte dei vinti della seconda guerra mondiale, senza averla vista né tantomeno combattuta. - Per una definizione dei confini della ricerca resta ineludibile precisare i contorni dell’oggetto della ricerca, il cui spazio geografico si estende a tutta la penisola, benché le caratteristiche dei movimenti giovanili, e la loro composizione ideologica di base, variassero in accordo con l’ambiente nel quale erano inseriti. Milano era una piazza differente da Roma, allo stesso modo il neofascismo veneto e friulano subì influssi decisamente divergenti rispetto a quelli presenti nel Meridione. Si diceva in apertura della galassia, da intendersi come insieme di gruppi divergenti ma uniti attorno allo stesso centro di gravità: la comunità dei vinti. Per questa ragione, si ritiene opportuno procedere entro i limiti nazionali; in più, la documentazione conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato può fornire notevoli riscontri specialmente attraverso una lettura comparata tra le diverse province.
Ora, si è scritto di anni Settanta in generale, ma i confini cronologici sono in realtà più stretti.
Infatti, l’intervallo studiato va dal 1971 al 1977, per le seguenti ragioni. L’ondata di protesta
sessantottina ebbe conseguenze dirette sulla strategia del partito missino, forte di una pregiudiziale anticomunista da giocare in sede elettorale, finalizzata a dipingere il PCI come colpevole occulto dei disordini sessantotteschi; invero, il MSI puntava a recuperare voti presso fasce della popolazione moderate e conservatrici. Per questo motivo, il MSI ruppe immantinente con i tesserati che erano scesi in piazza al fianco dei coetanei di sinistra; dopo la morte di Arturo Michelini, la segreteria passò ad Almirante: considerato da sempre vicino alla linea movimentista del partito, egli proseguì sulla strada tracciata dal precedente segretario, tentando di recuperare lo spazio perso dopo l’esperimento del governo Tambroni.
Si tenga conto che la nascita del Fronte della Gioventù, datata aprile 1971, segnò un’importante
svolta: esso avrebbe dovuto avvicinare i giovani ai dettami del partito, in virtù di un controllo più
rigido e, dall’altro lato, raccogliere differenti anime sotto l’egida missina in capo al progetto della
“grande destra”32. La decisione della segreteria almirantiana produsse una netta cesura con il passato, ha dichiarato il primo segretario del FdG, Massimo Anderson:
«L’unificazione giovanile, oltre tutto, nella stessa misura in cui ci consentiva di governare tutte le nuove leve del partito, permetteva anche a lui [Almirante, nda] di tenerle più agevolmente sotto controllo in riferimento alla pericolosità della situazione politica che si era determinata negli anni ‘68-’75. […] Detto in parole povere: se il Fronte della Gioventù costituì, per noi, un formidabile strumento di lotta proteso verso l’esterno, rappresentò, per Almirante, forse anche la possibilità di tenerci confinati in una sorta di riserva indiana dalla quale non potevamo, e non dovevamo, uscire».
Gli anni a cavaliere tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta videro dispiegarsi la strategia
della tensione, le attività terroristiche sconvolsero il Paese, i giovani inquadrati negli organismi
ufficiali di partito o nei gruppi afferenti all’area si trovarono in seria difficoltà, non solo per la presa di coscienza della pericolosa vicinanza di taluni personaggi, lo si accennava sopra, ma in particolare modo per la “vita in trincea” cui si trovarono costretti: seguiti dalle autorità, in perenne battaglia con i rivali.
Infine, la seconda metà del decennio portò con sé una nuova ondata di elaborazioni teoriche e
contaminazioni con i vecchi avversari politici che sfociò nell’esperimento dei Campi Hobbit, a partire dal 1977, e, in seguito, nell’allontanamento di molti dall’alveo del partito. Furono anni di transizione, in cui la logica politica venne sostituita dalla logica di piazza, dello scontro frontale, eppure in molti cercarono di superare la tradizionale dicotomia culturale e sociale tra antifascisti e fascisti.
Originariamente, il progetto partiva da una formula coniata dal politologo francese Bertrand De
Jouvenel, la teoria dell’esclusione conservatrice, in base alla quale si postula che l’esclusione di uno o più gruppi dal sistema politico divenga una condizione necessaria per la sopravvivenza dello stesso.
La proposta interpretativa di chi scrive utilizza la formula in chiave ermeneutica: i giovani si
trovarono effettivamente in un vicolo cieco negli anni Settanta, in virtù degli episodi di varia natura, qui solo accennati, di cui si cercherà di dare conto nella stesura della tesi di dottorato34. Per citare Marco Tarchi:
«È un periodo molto difficile per i ragazzi del Fronte della Gioventù, esclusi dalle sedi naturali del dibattito nelle scuole e nelle università. La loro stessa esistenza è vista come un intollerabile affronto alla natura antifascista della democrazia italiana. E non solo dall’estrema sinistra, ma da tutte le altre forze politiche, che impongono a livello giovanile, in maniera ancor più rigida, la logica dell’arco costituzionale».
Si badi, l’esclusione avvenne ugualmente a causa di quei meccanismi di autorappresentazione e
di riconoscimento identitario nella comunità dei vinti che tanta parte ebbero nell’agglutinare le
giovani generazioni attorno all’ambiente di destra; gli stessi slanci verso l’esterno erano comunque viziati da una buona dose di settarismo e di vena polemica.
In conclusione, l’oggetto della ricerca viene ulteriormente circoscritto, come anticipato
nell’introduzione, alle formazioni non essenzialmente votate all’eversione o alla violenza
indiscriminata. L’offesa fisica era senza dubbio parte integrante dell’attività politica dell’epoca, o
perlomeno accettata alla stregua di una variabile insuperabile (un aspetto sociale degli anni
Settanta36), e lo sfondo teorico sul quale si muovevano i giovani favoriva la circolazione del mito
dell’uomo forte, prestante e pronto alla battaglia fisica. Detto questo, la generalizzazione che si
riscontra in diversi approfondimenti non aiuta lo studio del fenomeno: bisogna distinguere tra quella che veniva definita, da tutte le anime per la verità, “autodifesa”, la quale “divenne presto attacco e contrattacco” e la violenza metodica e strategica. La suddivisione ha il mero scopo analitico e non si propone certamente di manlevare le responsabilità dei singoli; lo scopo è seguire la linea tracciata da Vittorio Vidotto, il quale ha scritto:
«di fronte a questo orizzonte mitico, largamente condiviso e propagandato, dove le diverseesperienze si accumulano e l’indistinto prevale, ci si domanda se nella ricostruzione di quegli anni riusciranno a prevalere l’analisi differenziale degli storici o i processi della memoria da tempo avviati e consolidati». - Conclusione
Dopo quasi diciotto mesi di dottorato, un primo, approssimativo bilancio può essere tracciato. La
mancanza di fonti ufficiali incide sul lavoro di ricerca a livello sostanziale, però il materiale da
esplorare è presente e, presumibilmente, in futuro aumenterà, ad esempio con l’importante
pubblicazione dell’archivio di Pino Rauti. Al momento, la vicenda delle giovani generazioni di Destra appare completamente inserita nel contesto di riferimento e si adatta alle specificità degli anni Settanta, come la relazione con la violenza dimostra in maniera limpida. D’altro canto, la galassia è estremamente complessa per diffusione, ampiezza e per l’eterogeneità dei riferimenti ideologici e culturali che sostanziavano l’azione politica. Peraltro quest’ultimo punto, va affrontato alla stregua di un tratto culturale, seguendo sia la suggestione di Chiarini citata in apertura, sia le fonti primarie.
L’interesse sulle modalità con cui si diventava militanti o simpatizzanti di destra non è fine a sé stesso, potrebbe anzi condurre a una visione prospettica nuova sul tema.
Indicativamente la tesi di dottorato dovrebbe seguire un’articolazione cronologica, poiché la
successione degli eventi contribuì in maniera determinante alla storia dei gruppi in oggetto. Il primo capitolo potrebbe concentrarsi sul triennio ’71-’73, dalla formazione del Fronte della Gioventù alla realizzazione delle strategie e delle tattiche politiche destrorse; la seconda parte riguarderebbe la dolorosa cesura del ’74, vissuto nelle testimonianze dei protagonisti dell’epoca come pagina sofferta del loro percorso. In seguito, il biennio ’75-’76 nel quale la recrudescenza dello scontro politico portò alla morte di due giovani, divenuti oramai volti iconici per il neofascismo: Mikis Mantakas e Sergio Ramelli. La parte finale descriverebbe la svolta del 1977, l’inizio di un processo di revisione teorica e pratica nella temperie del nuovo movimento che imperversava nella società. All’interno della struttura, cronologicamente orientata, devono essere sviluppati i temi citati in questo lavoro e, se possibile, si cercherà di impostare una nuova classificazione che includa queste formazioni politiche giovanili e ne spieghi, in una sintesi efficace, le caratteristiche peculiari.